A Ovest Di Paperino

Welcome to the dark side.
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Ventanni

Sono arrivato in questo Paese ”esattamente” vent’anni fa, per quanto esattamente si può misurare un periodo di tempo superiore a trecentosessantacinque giorni. Allora l’idea di restare così a lungo in terra straniera non passava neanche per la testa. Non a me, non ai 15 (più o meno) scalmanati arrivati in quella che credo sia stata l’unica immigrazione di italiani di massa a Redmond a opera di Microsoft.

Arrivai con un biglietto di sola andata ovviamente, che già fa un po’ timore, con un visto H1-B fresco di conio, Bari –> Venezia –> Amsterdam –> Seattle. Di quel viaggio ricordo le istruzioni stampate su un foglio A4 fronte retro con indicazioni varie su come noleggiare l’auto, dove andare, come recuperare le chiavi dell’appartamento temporaneo affidatomi e altra poca roba.

Ricordo di essere arrivato a Venezia e la tipa al bancone informarmi, con un smagliante sorriso, di non avere un biglietto a mio nome e che anticipai il costo di tasca mia: che fortuna essere uno dei pochi ad avere una carta di credito personale già allora, su insistenza di un mio amico.

Ricordo il volo Amsterdam –> Seattle, nel posto corridoio seduto di fianco ad un energumeno che, per paura di rimanere bloccato dal mio appisolarmi, mi svegliava ogni volta che mi calava la palpebra con la scusa di dover andare in bagno. Mi appisolai all’arrivo quando l’energumeno, recuperato il bagaglio a mano, si mise in fila per uscire. Venti minuti indisturbato, fui l’ultimo a lasciare l’aeromobile svegliato da un’hostess preoccupata.

Ricordo di averci messo un po’ a capire il cambio automatico, fermo nel parcheggio dell’aeroporto. Il terrore di percorrere le autostrade americane seguendo le indicazioni dal foglio di carta. Il GPS allora non aveva ancora applicazioni consumer.

E poi trovare un letto comodo, un cesto di benvenuto con qualche snack e non aver nessuna idea di cosa fare per cena. Ne di sapere con certezza nel mio jet-lag se fosse davvero cena o qualche altra cosa.

Ricordo di aver incontrato altri come me, presi forte dall’imposter syndrome che non sapevamo neanche cosa fosse. Tutti, nel definirci, abbiamo usato la stessa parola: incoscienti, arrivati per fare un’esperienza di qualche anno e rivendercela “a casa nostra”. Qualcuno è tornato, qualcuno è restato, qualche altro si è solo spostato un po’ più a Sud.

E altre cose personali che tengo ovviamente per me.

Se mi avessero chiesto allora quali fossero le probabilità di trovarmi nei panni in cui vesto oggi avrei detto quasi zero; difficilmente avrei pensato di essere ancora qui, figuriamoci poi lavorare addirittura per un’azienda nata poco prima del mio arrivo di cui allora solo pochi ne conoscevano l’esistenza.

Chissà allora fra vent’anni, fatti tutti i debiti scongiuri. Cheers!

-quack

Ciao Paul!